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Il cinema come espressione leggendaria

La Spagna e il suo Cid Campeador

di Nicoletta Magrino

  

LA SCHEDA DEL FILM

 

  

 

La magia del cinema è riuscita a farci rivivere, sebbene con differenti sistemi, antichi sogni, miti e leggende che sin dall’antichità hanno affascinato ed incuriosito l’animo umano. Potremmo definire i registi come novelli giullari che cantano le gesta di intramontabili eroi? Forse il paragone è arduo ma non impossibile.

Il termine americano epic film fa riferimento sia alle pellicole di soggetto antico che a quelle con i più diversi soggetti storici. Come afferma Andrea Sani: «Il film epico permette… delle vere e proprie “avventure della visione”, poiché è in grado di trasferire gli spettatori in mondi ormai perduti attraverso i grandi mezzi di cui può disporre, quali imponenza scenografica, le ricostruzioni in scala reale e la grandiosità delle scene di massa. I kolossal riescono a rendere visibile e concreto ciò che altrimenti sarebbe soltanto immaginabile; grazie ad essi, il passato può sembrare meno estraneo, e si arricchisce di suggestioni che coinvolgono sia la sfera cognitiva, sia quella affettiva del pubblico» [1].

Un tempo la trasmissione era solo orale. Pochi i letterati in grado di poter studiare e di poter produrre opere veramente degne di nota. Il loro pubblico era, ad ogni modo, molto limitato, visto l’elevato grado di analfabetismo.

Circoscriviamo la nostra analisi al Medioevo, terra di mezzo o forse terra di nessuno, dove regnano sovrani i sogni di infinite generazioni, ciascuna con la propria idea di questo non-tempo, dove la storia spesso è relegata a debole comparsa.

Le storie di personaggi a volte fantastici, a volte realmente esistiti, e quindi più strabilianti, erano cantate da menestrelli e giullari, che nelle corti e nelle piazze, riuscivano a catalizzare l’attenzione di un pubblico variegato pronto a sognare, pronto ad uscire dalla grigia routine quotidiana, dagli stenti e dalle debolezze umani. Un modo per rinfrancare l’animo, per divertirsi e appagare la loro insaziabile curiosità.

Riflettendo, ci accorgiamo che a distanza di un millennio l’uomo, fondamentalmente, non è affatto cambiato, unica costante e, perché no, forse unico determinante delle produzioni artistiche. Oggi l’analfabetismo è stato abbondantemente debellato, quasi fosse una malattia, nella maggior parte dei paesi del mondo. Il progresso, però, ci travolge e la velocità delle nostre azioni quotidiane ha preso il sopravvento su quel nostalgico andare lento che ci dava respiro e magari rifugio nella lettura di un buon libro. La velocità, questa tanto astratta quanto concreta tiranna, ci porta a non aver più tempo da dedicare ad una buona lettura, forse un angolino d’intimità, dove far interagire la propria fantasia con quella dell’autore-artista, ponendoci simultaneamente in uno stato passivo-attivo, di ricezione e rielaborazione dei dati assunti. Il tempo libero a disposizione è così limitato che, al di là della magia del grande schermo che attrae inesorabilmente, se un regista fantasioso riesce a fissare su pellicola le pagine di un romanzo, godibile in un lasso di tempo che non supera le tre ore di media, certo il veloce uomo moderno prediligerà il cinema ad un mesetto di lettura.

Ciò risulta essere molto interessante per comprendere i limiti e le magie del cinema come opera d’arte. Il cinema oggi insegna anche se la sua funzione principale non è assolutamente la didattica. Relegato ad arte minore, è giunto là dove altre forme artistiche non sono riuscite. Andrea Sani parla di «avventure della visione». Il pubblico vede concretamente ciò che, altrimenti, leggendo la storia, avrebbe potuto solo immaginare, dando corpo, così, alle descrizioni fantastiche dell’artista-autore. L’artista-regista concretizza attraverso immagini tridimensionali in movimento, attraverso il sonoro e la recitazione, tutto ciò che la sua fantasia elabora, coinvolgendo a tal punto il pubblico, che l’immaginazione di quest’ultimo risulta essere alquanto atrofizzata, ormai satura delle scene viste e metabolizzate. Si pensi a quando si legge un libro dopo aver visto il film che ne è stato tratto. I personaggi hanno i volti degli attori che li interpretano. Inoltre spesso il regista fa valere la sua soggettività artistica nella messa in scena cinematografica di storie, romanzi ed altre opere letterarie già esistenti. Accade poi che, qualora lo spettatore nella migliore delle ipotesi leggesse l’opera che ha ispirato il film, dopo la visione dello stesso, con tutta probabilità ne resta inesorabilmente deluso.

Tutto ciò ci fa porre delle domande molto semplici le cui risposte forse risulteranno essere molto complesse. Finché si naviga in generi letterari dove è la fantasia a predominare il danno forse è più ammortizzabile. Ma come ci si pone di fronte ai così detti film storici? Lo spettatore assume tutto quanto vede sul grande schermo come vero? Ciò accade anche con la lettura di romanzi storici?

Il più noto romanzo storico di Walter Scott (1771-1832)

La storia non può essere insegnata attraverso il cinema, come non può essere insegnata attraverso un romanzo storico. Walter Scott asseriva che la storia romanzata non ha bisogno di correttezza filologica, ma deve soltanto essere plausibile. Shakespeare confondeva i costumi delle diverse epoche e addirittura nel Giulio Cesare v’è un orologio che rintocca. Questa è la sostanziale differenza tra il vero ed il verosimile. Come spiegarlo però alle masse? Oggi appunto non v’è più l’analfabetismo ma incombe un altro tipo di ignoranza. Un’ignoranza originata dai meccanismi infernali di una società senza tempo. è forse la nostra epoca ad essere un non-luogo e un non-tempo?

La gente va al cinema e, per quanto consapevole che sia una forma d’arte e di finzione, è convinta che quanto vede sia vero, soprattutto in ambito storico. Luoghi comuni, così, insieme a distorsioni prospettiche e agli stereotipi come accezione negativa del luogo comune, prendono il sopravvento sull’autenticità storica. L’uomo che vuole sognare, che ha bisogno di esprimere i propri aneli, le proprie paure si rifugia in idee di passato che gli fanno comodo.

Che differenza c’è allora tra un libro storico ed un film storico? Il film è fatto di immagini, e queste hanno il magico potere di catalizzare, nella mente umana, scenari, atmosfere, luoghi d’altri tempi, indipendentemente dalla volontà dello spettatore. Persino il più austero ed intransigente dei critici cinematografici, che per professione ha il grave compito di assumere una posizione oggettiva e distaccata dall’opera d’arte, è influenzato dal potere delle immagini. E tali immagini entreranno a far parte dell’immaginario collettivo, vere o false che siano dal punto di vista storico, ma vere nel loro essere immagini perché, citando Andrea Sani, riescono appunto a rendere visibile e concreto ciò che altrimenti sarebbe soltanto immaginabile, coinvolgendo la sfera cognitiva. Il passato, o meglio l’idea di passato, risulterà essere meno estraneo e lontano, più accessibile, pronto a raccogliere le proiezioni fantastiche dell’uomo contemporaneo e a regalargli il potere di ideali sopravvissuti a secoli di storia.

Sempre Sani nel suo “elogio del cinema epico” afferma quanto segue: «…l’epopea degli eroi descritta in questi film [i kolossal] ha sempre esercitato un grande fascino, perché è una proiezione del bisogno di trascendere la mediocre umanità che è in noi in personaggi “più grandi della vita” [bigger than life], capaci di imprese straordinarie. Non a caso, secondo la psicologia del profondo di ispirazione Junghiana, la figura dell’eroe è il simbolo di un ampliamento della coscienza dell’Io, verso cui naturalmente tendiamo» [2].

Esaminiamo il film El Cid di Antony Mann (1961) che narra le imprese del mitico eroe spagnolo le cui gesta sono giunte a noi attraverso il cinema, la leggenda ed infine la storia. Un processo cognitivo che va beffardamente va a ritroso.

Un film, questo, certamente degno di nota e che spicca tra i tanti capolavori dedicati alla cinematografia epica. Questo giudizio, però, si riferisce al contesto filmico preso nella sua unica accezione di opera d’arte, ossia interpretazione ed elaborazione soggettiva di una leggenda che affonda le sue più remote origini nella storia.

Molti critici cinematografici affermano che il plot si basa sul Cantar de Mio Cid. Solo Andrea Sani aggiunge che il regista si è basato oltre che sul poema in questione anche sul dramma Le Cid scritto da Pierre Corneille nel Seicento. Considerando che al fianco di Antony Mann presenziò la scena Menéndez Pidal, il più grande studioso del Cid mai vissuto, mi è spontaneo trovare delle incongruenze. Analizziamo quanto detto più dettagliatamente.

Il film in questione non si basa affatto sul Cantar in quanto i luoghi, i personaggi, l’evolversi della storia è completamente differente, coincidendo in alcuni punti più per casualità che per uno studio specifico dell’opera. Guardando la pellicola in questione è facile pensare al dramma di Corneille, ma è bene sottolineare che quest’ultimo, a sua volta, si è basato sull’opera di un drammaturgo spagnolo vissuto a cavallo tra Cinquecento e Seicento, certo Guillem de Castro (1569-1631) che scrisse le Mocedades de Rodrigo [3]. La scena del film che propone l’incontro del Cid con il lebbroso, ci fa comprendere che in realtà il regista si è basato proprio su quest’ultima. Corneille, infatti, aveva eliminato la scena del lebbroso dal suo dramma.

L’uccisione del padre di Jimena per mano di Rodrigo, la vendetta che questa chiede per ben tre volte al suo re, il duello con il primo cavaliere aragonese per questioni di confine, sono tutti elementi in comune tra il film e il dramma seicentesco spagnolo. Ed ancora la visita che Rodrigo fa a Jimena, raggiungendola nelle sue stanze, l’esilio (che sembra essere causato più dalle richieste della giovane amata che non dai contrasti tra il Cid ed il suo re), il ritiro di Jimena in monastero ed il suo finale ricongiungimento al Campeador, sono tutti tratti che non fanno altro che confermare la mia tesi.

Dal Cantar indubbiamente sono stati tratti elementi come, ad esempio, la causa del secondo esilio, attribuibile ai dissapori tra l’eroe ed Alfonso VI, la guerra contro Ben Yusuf e gli almoravidi, la conquista di Valenza. Qui entriamo, però, più approfonditamente nel merito storico. Le discordanze tra realtà e finzione saranno evinte da un confronto diretto tra la storia ed il film citato. 

Storicamente parlando, non vi fu nessuna disputa per la città di Calahorra, che Mann nel film pone a confine tra Aragona e Castiglia. Dal punto di vista geografico non può esserci affermazione più errata. Come si può evincere dalla cartina della Spagna dell’XI secolo, Calahorra si trova nel regno di Navarra e non è affatto posizionata sul confine tra quest’ultima e la Castiglia. L’Aragona, a quell’epoca, era un piccolo cantuccio che non confinava affatto con la Castiglia. Se proprio volessimo attribuire a questa città un valore di frontiera, forzando un po’ la geografia, questa risulterebbe tra Navarra e Aragona.

Nel film, alla morte di Fernando I, Urraca eredita la fortezza di Calahorra, la città di confine appena conquistata con il duello tra il Cid ed il primo cavaliere aragonese. Scoppiata la lotta fratricida tra Sancho II e Alfonso VI per il dominio completo su Castiglia, León e Asturie, e dopo un alterco tra i due, quest’ultimo viene inviato da Sancho alle prigioni della fortezza di Zamora. Dopo un agguato subito durante il tragitto, questi si rifugia nella fortezza di sua sorella Urraca. Alfonso esce illeso da questo agguato grazie alla spada dell’eroico Cid. Inoltre è proprio a Calahorra che si svolgeranno le scene del complotto ordito contro Sancho che incontrerà la morte assalito e pugnalato da uno sconosciuto, nei sotterranei della fortezza.

Niente di più falso dal punto di vista storico, anche se esaltante da quello cinematografico, per il plot, le scenografie e la coreografia, considerando che il film è stato girato negli anni Sessanta e, quindi, con i mezzi di allora. Torniamo alla storia. Urraca ereditò realmente una fortezza alla morte di suo padre, ma era quella di Zamora e non quella di Calahorra, situata dalla parte opposta geograficamente parlando. Alfonso, sconfitto in una battaglia dai leonesi, fu fatto prigioniero ed inviato a suo fratello Sancho che lo rinchiuse nelle carceri del castello di Burgos. Questi su preghiera di Urraca e su giuramento di fedeltà di Alfonso, lasciò libero il fratello che andò in esilio a Toledo. Urraca invece organizzò l’insurrezione di Zamora che fece accorrere Sancho. Il monarca fu ucciso nel suo accampamento durante l’assedio, da certo Vellico Adolfo, che fu braccato ed ucciso dal Cid. Quindi Alfonso VI non si rifugiò da sua sorella, ed alla morte del fratello lui era a Toledo. E nel suo esilio non è assolutamente accertata la presenza del Campeador.

Sul complotto che portò all’uccisione di Sancho è sempre rimasto un velo di dubbio su chi l’avesse realmente ordito. L’immaginario collettivo e non la storia lascia sempre credere che dietro tale azione vi fossero Urraca ed Alfonso. Nel film, invece, ci è mostrata un’altra versione. Esaminiamola.

Ancora vivo Sancho II, Ben Yusuf raggiunge a Valenza il tā’ifah al-Qádir, per proporgli un’alleanza per combattere i cristiani. Gli comunica il complotto macchinato contro Sancho affinché i sospetti poi ricadano sul fratello Alfonso VI che avrebbe regnato poi con questa ombra che gli sarebbe costata l’infedeltà dei suoi sudditi e forse dello stesso Cid.

Dal punto di vista storico le incongruenze sono tantissime. Quando al-Qádir salì per la prima volta in assoluto al comando di una tā’ifah, questa fu quella di Toledo. In quel periodo, a cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta dell’XI secolo, Sancho II era già morto e Alfonso VI regnava a pieni titoli su Castiglia, León e Asturie. Valenza era ancora tutta musulmana e libera da qualsiasi protettorato cristiano. In questo stesso periodo al-Qádir chiese aiuto al monarca cristiano per fronteggiare le minacce musulmane ed i disordini interni alla città di Toledo voluti dal partito degli ‘intransigenti’. Dopo la vittoria dei cristiani, il capo moro dovette arrendersi al protettorato castigliano, ed in questo caso invocò l’aiuto degli almoravidi con lo scopo di salvaguardare la religione islamica. Fu però poi espulso da Toledo e si rifugiò a Cuenca dove si incontrò con Alfonso VI. Nel 1085 Toledo fu conquistata definitivamente ed i due sovrani entrarono insieme e trionfanti nella città.

Come ben si può notare, la conquista di Valenza era ancora lontana. Ci fu prima la sconfitta di Alfonso VI a Sagrajas nel 1086 in cui ebbe la meglio l’almoravide Ben Yusuf. Dopo il 1087, al-Qádir fu imposto come sovrano a Valenza. Il Cid non affiancò il suo re a Sagrajas perché Alfonso VI adunò i suoi più valorosi uomini solo dopo l’atroce sconfitta contrariamente a quanto ci viene narrato dal film. Tra i cavalieri convocati figurava Don Rodrigo de Vivar. Si deduce, quindi, che all’epoca tra l’eroe ed il monarca cristiano c’era una tregua. Al-Qádir invece era impegnato a difendersi dalle mire espansionistiche catalane. Vista la situazione confusa e scottante, il sovrano moro chiese nuovamente aiuto ad Alfonso VI ed al Cid. Quest’ultimo esercitò il suo protettorato su Valenza in nome del suo re.

Ritornando a Ben Yusuf, è impossibile che abbia mai potuto tramare l’uccisione di Sancho II alleandosi con al-Qádir, il quale nella vita reale, era grande amico di Rodrigo Diáz de Vivar.

Mann fa coincidere la causa del secondo esilio del Cid (che in realtà nel film altro non è che la prosecuzione del primo esilio mai veramente terminato) con il rifiuto di questi di unirsi ad Alfonso VI nella battaglia di Sagrajas.

Storicamente parlando, la scena del mancato incontro tra il Campeador ed il monarca cristiano, si sposta a Villana. Probabilmente, per errori di calcolo sul tempo necessario per percorrere il tragitto che lo divideva dalla meta, il Cid non raggiunse in tempo il suo re. Qui sorse il malinteso ed Alfonso VI esiliò Rodrigo convinto che il suo atto fu in mala fede.

Le gemelline figlie del Cid in una scena del film di Mann

Altra evidentissima incongruenza riguarda le figlie del Cid. Il nostro regista sceglie di rappresentarle come sorelline gemelle che non crescono mai. Il nostro eroe, invece, nella realtà aveva ben tre figli, due donne ed un erede maschio che morì precocemente nella battaglia di Consuerga il 15 agosto del 1098. Tutto ciò conferma la mia tesi: il film di Mann non si basa assolutamente sul Cantar de Mio Cid. Qui Elvira e Sol sono adulte ed il nostro eroe è impegnato a riscattare l’onore oltraggiato della sua famiglia, ad opera degli infanti di Carrión. Guillem de Castro, nelle Mocedades, non focalizza minimamente la sua attenzione sulle figlie del Campeador e sui loro destini; Corneille nel suo Le Cid non le menziona affatto.

La trovata delle figlie gemelle ed eternamente piccole nella pellicola è quindi un’iniziativa artistica esclusiva del regista.

Il Cid Campeador infine morì il 24 giugno 1098 a Murviedro, in silenzio. è la leggenda creata da giullari e menestrelli del tempo che, da morto, lo ha voluto armato in groppa al suo destriero al galoppo, per terrorizzare i nemici con la maestosità della sua presenza. Nel Cantar non v’è alcuna scena drammatica che descriva la morte dell’eroe, ma un solo e flebile accenno negli ultimi versi, che giustificano la fine del poema con la scomparsa dell’eroe. Guillem de Castro e Corneille, nelle loro rispettive opere, invece, non fanno morire il mitico eroe.

Può quindi il cinema insegnare la Storia? Assolutamente no! Si dovrebbero rieducare le masse alla lettura, a vivere il tempo libero in modo costruttivo, e contrastare l’ignoranza di fondo che dilaga inesorabilmente.

Il cinema, benché relegato tra le arti minori come il fumetto, è un mezzo per poter sognare, per vivere realtà virtuali prima impensabili, dove la fotografia, la scenografia, la coreografia, la sceneggiatura, la musica, il doppiaggio, la recitazione e quant’altro, divengono veri viaggi artistici che confluiscono e si unificano nella figura leader del regista.

Il cinema è la realizzazione di un sogno artistico per i suoi artefici, ed è il potere di sognare per i suoi spettatori, assorbiti dal grande schermo quasi fosse una novella sindrome di Stendhal. Alla storia il suo rigore scientifico.

    

(1) Vedi Andrea Sani, Il cinema tra storia e filosofia, Ed. Le Lettere, Firenze 2002.

(2) Ibidem.

(3) Mocedad in italiano significa “gioventù”, ma essendo qui utilizzato al plurale, lo si potrebbe intendere nel suo significato figurativo “le licenziosità di Rodrigo”. Infatti il Dizionario monolingue spagnolo di María Moliner, ed Gredos, Madrid 1988, seconda ed., al terzo punto spiega il vocabolo in questione come segue: diversióm licenziosa ossia “diversione licenziosa”. Al secondo punto invece dà come significato Vida disipada o licenciosa ossia “vita dissoluta o licenziosa”.

 

Breve nota bibliografica

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©2004 I ediz., Nicoletta Magrino

    

 


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