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  testo di Concetta Ricatti  


Il Decameron

di Pier Paolo Pasolini, 1971

LA SCHEDA DEL FILM

 

     

 

   

Sogg.: tratto dal Decameron di Giovanni Boccaccio
Scen.: Dante Ferretti
Fot.: Tonino Delli Colli
Mus.: scelta da Pier Paolo Pasolini con la collaborazione e l'elaborazione di Ennio Morricone
Inter.:

Franco Citti (Ser Cepparello-San Ciappelletto), Ninetto Davoli (Andreuccio da Perugina), Jovan Jovanovic (Rustico), Angela Luce (Peronella), Pier Paolo Pasolini (un allievo di Giotto), Giuseppe Zigaina (frate confessore), Vincenzo Amato (Masetto da Lamporecchio), Guido Alberti ( un ricco mercante), Gianni Rizzo (il padre superiore), Elisabetta Genovese (Caterina), Silvana Mangano (la Madonna).

Nazionalità: Italia, 1971
Durata: 110'
Altri titoli: Le Décaméron; The Decameron

 

«Decameron è un’opera che vuole essere completamente gioiosa, in maniera astratta», dichiarò il regista. E aggiunse: «La gioia di vivere che c’era nel Boccaccio (anche nei racconti tragici) proviene dall’ottimismo del Boccaccio. L’ottimismo del Boccaccio era un ottimismo storico. Cioè, nel momento in cui lui viveva, esplodeva quella meravigliosa e grandiosa novità, che era la rivoluzione borghese: cioè nasceva la borghesia. E, in quel momento, intorno al Boccaccio, la borghesia aveva la grandezza, che avrebbe raggiunto solo in certi momenti, e in certi stadi, e in certe, diciamo così, aree marginali della sua storia. [...] Quindi il Boccaccio ha vissuto in questi momenti di esplosione, di nascita, di inizio e di principio di una nuova era. E questo ottimismo suo, che è razionale e logico (perché la ragione è il segno della borghesia), fa sì che l’opera di Boccaccio sia una grande opera gioiosa. Evidentemente, per me tutto questo non avviene. Io ho ritagliato un Boccaccio mio, particolare. Il mio Boccaccio è infinitamente più popolare del Boccaccio reale. Il Boccaccio reale è popolare in una senso molto più vasto di questa parola: la borghesia veniva lecitamente compresa nel popolare allora (le istituzioni erano ancora feudali, erano ancora aristocratiche. Il potere era ancora una potere, o metafisico del Papa, o insomma era comunque un potere sacro). Dunque, la borghesia, in qualche modo, era estremamente più vicina al popolo. […] Quindi ho ritrovato quella gioia (che nel Boccaccio è giustificata ottimisticamente dal fatto che lui viveva la nascita meravigliosa della borghesia) e l’ho, diciamo così, sostituita con quella innocente gioia popolare, in una mondo che è ai limiti della storia, e in una certo senso fuori della storia».

Dalle considerazioni che lo stesso Pasolini espresse dopo la lavorazione del film Il Decameron si comprende immediatamente che un raffronto con Boccaccio interessa poco. Si può dire che esso lo richiama soltanto per convenzione culturale poiché il regista lo interpreta a suo modo trascurando ogni critica che nell’opera letteraria è invece contemplata, a istituzioni quali la Chiesa o la famiglia, per farsene al limite cantore, e trascura ogni riferimento di fedeltà storica.

In sostanza l’opera letteraria è solo un pretesto che serve a rappresentare il sogno estetico del regista ossia quello di una realtà primitiva. Pasolini infatti subisce il fascino dell’arcaico e del primordiale ed il suo fine è quello di descrivere un lembo di natura miracolosa scampato all’erosione della storia.

Ispirandosi figurativamente a un arco di riferimenti che va dal Tre al Cinquecento, egli sceglie le novelle meno Toscane per trasportare gli avvenimenti in una Campania fuori dalla storia, dove il popolo è autarchicamente integrato e soddisfatto, e i suoi soli problemi sono d’amore e di beffa; così dal mondo borghese della Firenze del Trecento a quello plebeo di Napoli si delineano le vicende delle nove novelle.

Si susseguono in questo modo le figure di Peronella che convince lo sciocco marito a nascondersi in una giara e poi riceve tranquillamente il suo amante; di Masetto che si finge sordomuto e così riesce a sedurre un intero convento di suore; ed infine di Isabetta che nasconde sotto una pianta di basilico la testa del suo innamorato mozzata dai fratelli, in modo da poterla tenere sempre vicino a sé.

Ci sono poi anche due novelle di cornice: quella dell’usuraio Cepparello che con un ben organizzato inganno diventa il santo Ciappelletto, venerato sugli altari, e quella del pittore che affresca la chiesa (lo impersona lo stesso Pasolini) che osserva la variopinta e vivace folla partenopea.

Se quindi si deve parlare di film che rappresenta un periodo storico risalente al Tardo Medioevo, va necessariamente specificato che il Decameron ne costituisce tuttavia un affresco in alcuni punti contestabile e controverso.

Infatti se lo scenario funge già da citazione storica con i castelli normanni dell’Italia meridionale, ciò che fa dichiaratamente evidenziare l’ambientazione è la dimensione “fantastica” in cui Pasolini ha voluto immergere le vicende.

Un accenno di storia può forse trovarsi nella prima e nell’ultima novella, ossia quella di Masetto e quella di Tingoccio, in cui Pasolini biasima e deride la corruzione e il falso moralismo della Chiesa e l’immoralità del potere in uso nel Medioevo; il resto è avvolto da un’aureola fantastica, come se i suoi personaggi si muovessero in un sogno.

Gli eroi grossolani e pieni di vitalità del Medioevo diventano quasi epici, legati ad un idioma arcaico ed innocente, ossia il dialetto napoletano, riproponendo così un contatto primitivo ed originario che sembra arrivare sino al mito.

L’idea proposta da Pasolini sembra ricollegarsi alla storiografia dell’Ottocento in cui si allontana lo stereotipo dei secoli bui per crearne un altro, uguale e contrario, del Medioevo come età dello spirito e del sentimento in reazione contro la razionalità illuminista.

Questo è visibile non solo nella struttura generale del film, ma soprattutto nell’episodio-guida interpretato dallo stesso Pasolini che veste i panni del miglior allievo di Giotto traducendo in chiave autobiografica la sua idea sul rapporto tra vita, sogno ed arte. Il culmine è rappresentato dal sogno allucinato, compiuto dall’allievo di Giotto (Pasolini) e riprodotto nelle immagini cinematografiche a somiglianza di pitture trecentesche. Temi del sogno sono il Paradiso (con Silvana Mangano che impersona la Madonna) e l’Inferno.

La sua visione fantastica continua poi nella novella di Gemmata la quale viene posseduta sotto gli occhi del marito da Don Gianni che furbescamente dichiara di star mettendo in atto un incantesimo per trasformarla in cavalla, ma anche in quella di Isabetta che seppellisce a casa propria, in un vaso, la testa dell’amante uccisole dai fratelli.

Se perciò non viene espresso il Medioevo feudale, quello che ha un modello di società basata sul privilegio, sull’autoritarismo e sull’oppressione, si ha il Medioevo degli incantesimi, delle stregonerie che ancor oggi, anche se errate, affascinano coloro che si avvicinano allo studio di tale epoca.

E proprio questo bisogno di esotismo e dell’altrove che alberga anche in Pasolini continuerà in uno pseudo viaggio fantastico con gli altri due capitoli della trilogia della vita, ossia Il fiore della mille e una notte e i Racconti di Canterbury dove l’esplorazione del Medioevo invaderà anche paesaggio orientale e poi quello inglese.

 

Breve nota bibliografica

V. ATTOLINI, Sotto il segno del film (cinema italiano 1968/1976), Bari, Mario Adda editore, 1983.
G. FOFI, Capire con il cinema, Milano, Feltrinelli editore, 1977.
A. FERRERO, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, ed. Marsilio, 1996.

     

  

       

   

©2008 Concetta Ricatti

    

 


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