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  testo di Tiziana Dileo  


Il Fiore delle Mille e Una Notte

di Pier Paolo Pasolini, 1974

LA SCHEDA DEL FILM

 

      

 

   

Sogg.: tratto da Le Mille e Una Notte
Scen.: Pier Paolo Pasolini con la collaborazione di Dacia Maraini
Fot.: Giuseppe Ruzzolini
Mus.: Ennio Morricone
Inter.:

Ninetto Davoli (Aziz), Tessa Bouché (Aziza), Franco Citti (il genio), Franco Merli (Nur Ed Din), Ines Pellegrini (Zumurrud), Margareth Clémenti (Aziz's mother), Luigina Rocchi (Fatima), Alberto Argentino (Shahzmah), Francesco Paolo Governale (Tagi), Salvatore Sapienza (Yunan), Zeudi Biasolo (Zeudi), Barbara Grandi, Elisabetta Genovese, Gioacchino Castellini, Abadit Ghidei.

Nazionalità: Italia, 1974
Durata: 129'
Altri titoli: Arabian Nights; Les Milles et Une Nuits; Flower of the Arabian Nights; A Thousand and One Nights; Erotische geschichten aus 1001 nacht

 

«Poi ho fatto questo gruppo che io chiamo trilogia della vita, cioè i film sulla fisicità umana e sul sesso. Questi film sono abbastanza facili, e io li ho fatti per opporre al presente consumistico un passato recentissimo dove il corpo umano e i rapporti umani erano ancora reali, benché arcaici, benché preistorici, benché rozzi, però tuttavia erano reali, e opponevano questa realtà all'irrealtà della civiltà consumistica. Ma anche questi film sono stati in un certo senso superati, resi vecchi dalla tolleranza della civiltà dei consumi» (P.P. Pasolini).

Il recupero del mondo scomparso attraverso il sogno, la visione, ma, soprattutto, attraverso la centralità assoluta della sessualità sono il motivo principale de Il Fiore delle mille e una notte, terzo ed ultimo film di quella “trilogia della vita” che tanto scandalo suscitò tra l’opinione pubblica italiana, quanti successi e riconoscimenti da parte della critica di tutta Europa.

Quest’ultimo film, tuttavia, offre un approccio “metafilmico” ben distinto rispetto ai suoi predecessori. Mentre per i primi due film della Trilogia è stato proficuo un confronto tra l'autore del testo letterario e il regista del film, nel caso delle Mille e una notte ci si trova, fin da subito, di fronte “all'impossibilità materiale” di un tale confronto. Come è noto, infatti, la raccolta di novelle non è risultato dell’ opera di un unico autore, né tantomeno di un'unica età storica o di un'unica zona, bensì è il risultato di una lunga stratificazione e di una secolare rielaborazione in senso popolare di molteplici fonti appartenenti a diverse culture e a epoche diverse. Un processo di “stratificazione narrativa” che forse si dipana da prima del secolo IX per trovare una sua definitiva sistemazione intorno al secolo XV. Su una base indubbiamente indiana, infatti, si innestano componenti persiane, irachene e, infine, egiziane.

In questo modo alla disparità delle origini corrisponde una diversità degli stili, dei generi e persino degli esiti letterari. Le Mille e una notte, come è logico aspettarsi dalla molteplicità degli strati, delle fonti e il diverso talento artistico dei vari e anonimi autori, “sono un'opera composita e di diseguale valore, in cui accanto a parti eccellenti ve ne sono altre mediocri e altre insignificanti e scadenti”. A tale tendenza “disgregatrice” si contrappone, però, la valenza unificante ed assimilatrice che hanno avuto i secoli di tradizione e rielaborazione popolare.

Pasolini, dunque, non dovette operare una scelta paragonabile a quella fatta a suo tempo per il Decameron e per i Racconti di Canterbury, cioè non dovette ritagliarsi delle “sue” Mille e una notte epurandone gli elementi borghesi in favore delle più schiette ambientazioni popolari. Infatti, come si è visto, le Mille e una notte possono essere considerate riunite ed assimilate da una visione popolare “dal basso”. Così il più umile dei mendicanti e lo splendido califfo Harún ar-Rashíd, passando per i mille mercanti ed artigiani che compongono il mosaico dell'opera, partecipano di una stessa cultura, di uno stesso linguaggio, in un certo senso anche di una stessa dignità. Il punto di vista che viene espresso è quindi quello di una civiltà cittadina, che poi è un punto di vista prevalentemente popolare; il mondo splendido e abbacinante dei palazzi principeschi, come quello popolato dalle apparizioni fantastiche dei ginn e delle fate, sono visti attraverso “gli occhi avidi e curiosi del popolo”, in modo da far emergere l’autentica vita popolare di una metropoli medievale d’Oriente.

Qui s’innesta il lavoro d’interpretazione e traduzione visiva da parte di Pasolini. Rintracciare le singole novelle su cui si basano gli episodi del film non è del tutto agevole. Innanzitutto perché la struttura del film non è costituita da una rigida successione di episodi a sé stanti, come nei due precedenti, ma da un'elaborata struttura ad incastro, a scatole cinesi si potrebbe dire, di racconto nel racconto. In secondo luogo, per la trasformazione e il riadattamento che subiscono singoli brani di novelle all'interno del film; infine, anche dal cambiamento di molti nomi dei protagonisti e il ricorso sporadico (per alcuni aspetti marginali di alcune novelle) ad un testo diverso rispetto all'edizione italiana più conosciuta (Einaudi) .

Il lungo episodio di Zumurrud e di Nur ed-Din è tratto dalla Storia di Alì Shar e della schiava Zumurrud, con l'aggiunta del piccolo aneddoto di Harún ar-Rashíd e le tre schiave nella scena in cui Nur ed-Din viene massaggiato dalle tre ragazze che lo hanno sollevato con una carrucola, e con l'inserimento di una parte della Storia del facchino e delle ragazze nelle scene del lavoro di Nur ed-Din come facchino e de “l'indovinello della piscina”.

  

Il gruppo dei tre piccoli episodi che hanno come elemento unificatore il sovrano Harún ar-Rashíd si rifanno rispettivamente alla Storia di Harún ar-Rashíd e di Zobeida, alla Storia di Abu Nuwàs e di Harún ar-Rashíd e ad una novella che non compare nell'edizione Einaudi ma che si rifà, probabilmente, ad una traduzione francese del Galland.

Infine, le storie di Tagi e di Azíz sono tratte dalla Storia dell'amante e dell'amato: Tagi al-Mulúk e Dúnya, e dalla Storia di Azíz e Aziza, con l'inserimento dei racconti dei due monaci che in realtà appartengono alla già citata Storia del facchino e delle ragazze.

è l'episodio di Zumurrud e di Nur ed-Din quello che in questo film ricopre la funzione di cornice unica, su cui si innestano “per geminazione”, gli intrecci tra “l'episodio-base” e gli altri si moltiplicano e diventano più intricati per la molteplicità dei piani narrativi e del rapporto “narrante-narrato”.

È un film, inoltre, che come i precedenti parla del Potere, inteso come espressione della stessa cultura barbarica del popolo a cui è applicato (e non più, quindi, antagonista implacabile e dalle aspirazioni egemoniche su questa cultura). Un potere che può manifestarsi anche con crudeltà e dispotismo (vedi, ad esempio, le due spietate crocifissioni ordinate da Zumurrud\Wardan), senza, tuttavia, venir meno mai a quella concezione sacrale della vita e della morte su cui la cultura mediorientale si fonda; in poche parole la violenza, la tortura, persino l'assassinio non implicano mai la dissacrazione del corpo e la sua riduzione a vile merce di scambio o a materia inerte nelle mani del potere, come visto in altri film del regista.

Tutto questo risulta evidente se si prende in considerazione il gruppo di piccoli episodi di cui fanno parte le tre novelle, legate tra loro, lette da Zumurrud a Nur ed-Din nella prima parte del film.

In questi tre episodi, ambientati in un'Etiopia annegata nel sole subequatoriale, il potere barbarico e astorico di cui si è parlato si manifesta nella persona di Harún ar-Rashíd, il sovrano perennemente sorridente che nel primo episodio, mentre si avvicina di soppiatto per spiare Zeudi che fa il bagno, sembra un vecchietto spiritato tutto preso dal suo folle e gioioso desiderio del corpo della moglie. Questo tipo di follia, una sorta di tratto distintivo del sovrano, sembra guidare i suoi innocui capricci, la sua insaziabile curiosità, e fanno ritrovare al potere una qualità che gli era finora sconosciuta: l'umanità. Umanità del potere che può essere estesa a tutti i sovrani che compaiono all'interno del Fiore delle Mille e una notte (il padre bonario di Yunan e il re che ospita Shazaman trasformato in scimmia); così come il suo aspetto folle, leggero, demistificatorio che ritorna, ad esempio, nella processione in pompa magna per la presentazione a corte della scimmia, oppure alle risate che accompagnano il disvelamento del corpo nudo di Zumurrud\Wardan ad Hayat, la sua novella sposa.

Di pari passo con questa trasformazione radicale del potere, procede una conquista che finora era anch'essa ignota, quella del corpo e la liberazione del sesso, in particolare della sessualità omosessuale. Il fiore delle Mille e una notte, infatti, più che per l'amore eterosessuale pieno e pacificato di Zumurrud e di Nur ed-Din o di Tagi e Dúnya, si distingue dagli altri due film della trilogia per i rapporti omosessuali finalmente liberati dalla cappa ossessiva del peccato (Ciappelletto) e della repressione (il Racconto del Frate).

Dall’analisi di tutti questi elementi si può dedurre come quest’opera, nonostante i ripetuti rimaneggiamenti operati dallo stesso autore a causa dell’evidente ostilità che avrebbe potuto incontrare un prodotto cinematografico del genere nell’Italia degli anni ’70, denunci il conformismo, la precarietà dei rapporti sociali ed il consumismo, ormai anche affettivo, del mondo contemporaneo. Una denuncia attuata attraverso la contrapposizione al modello occidentale di un mondo povero, come quello mediorientale di allora, ma vivo, libero dai condizionamenti dettati dal mercato e dalla concorrenza. Un mondo arcaico e “romantico” in cui la sessualità non è vista come tabù ma come liberazione, sogno e felicità, in grado di annullare qualsivoglia distinzione sociale.

In amore non vi è alcuna differenza, infatti, tra visir e contadina, tra il ricco mercante e la schiava o tra l’intellettuale ed i giovani pastori. Tutti questi personaggi godono o soffrono allo stesso modo, amano o sono respinti senza contare quelle che sono le disparità sociali ma semplicemente per l’estetica, l’attrazione o il capriccio.

Per rendere molto evidente questo confronto tra Mondo Occidentale evoluto ma estraniante e Terzo Mondo primitivo e genuino, la ricostruzione storica del Medioevo, seppur in ambiente islamico, viene semplicemente abbozzata, ai limiti quasi della credibilità.

Le location cittadine, rurali e persino il deserto non vengono modificate ma si presentano così come sono oggi. Viene offerto in questo modo uno spettacolo di “romantica decadenza” in cui si svolgono le umane vicende dei personaggi. Tutto sembra offrire l’immagine di un Oriente arretrato ma allo stesso modo variopinto, vivo ed imprevedibile. Tutte le scene ci offrono la rappresentazione dell’eredità culturale preislamica del popolo arabo, ovvero un mondo fatto di pastori, razziatori, mercenari, predoni, mercanti, carovanieri e, assai più raramente, agricoltori e artigiani.

È la stessa opera de Le Mille e una notte ad offrirci gli stereotipi di queste figure, mantenendo solo sullo sfondo l’elemento islamico unificante l’enorme area geografica mediorientale.

Probabilmente tutto questo aspetto della cultura islamica manca al film, rimanendo molto ai margini proprio come l’opera da cui è tratto e sicuramente perché nella volontà del regista si voleva presentare un mondo abbozzato, sognante e sognato piuttosto che marcatamente inquadrato nella sua storia.

 

Breve nota bibliografica

F. Gabrieli (a cura di), Le mille e una notte, Einaudi 2006.
N. NALDINI, Pasolini, una vita, Einaudi, Torino 1989.
A. FERRERO, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, ed. Marsilio 1996 (1977).

     

  

       

   

©2008 Tiziana Dileo

    

 


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